giovedì 21 maggio 2015

Il profumo, di P. Süskind

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE CONTIENE ANTICIPAZIONI SUL CONTENUTO DELA TRAMA

Avevo acquistato questo ebook qualche anno fa, per poi quasi dimenticarlo, in attesa che arrivasse il momento giusto per immergermi in un romanzo simile. Momento che mi è sembrato giungere in un periodo di forte stress, quando sentivo di aver bisogno di un romanzo non troppo impegnativo, in grado di distrarmi e intrattenermi senza richiedermi troppi sforzi. Se aggiungiamo anche che ultimamente ho sviluppato un forte interesse nell'ambito profumiero, e che mi sono data a qualche piccolo esperimento nasale anche io (no, non spaventatevi, nulla alla Grenouille), be', non ho saputo resistere, e mi sono gettata in mezzo ad aromi ed effluvi della Francia del diciottesimo secolo.
Devo dire che le aspettative sono state rispettate in pieno: non cercavo un capolavoro della letteratura contemporanea, ma ho trovato un romanzo interessante e originale, in grado di coinvolgermi e di intrattenermi in maniera molto piacevole. La scrittura di Süskind è scorrevole ed accattivante, molto evocativa e precisa per quanto riguarda la descrizione degli odori (e se qualcuno si interessa un pochino di composizioni profumiere, sa quanto sia complicato descrivere note olfattive e armonie di boquet), pur senza apparire mai pesante o monotematica.
Credo che per apprezzare questo romanzo ci si debba calare nell'ottica che questo non è un romanzo storico, non vuole essere realistico o narrare una vicenda fittizia ma credibile, perché in questo caso si resterebbe delusi. Credo che questo romanzo sia sospeso fra un'atmosfera fiabesca (ma se per fiaba intendiamo racconti fantastici e crudi, non certo principesse e vero amore e lieto fine) e una comicità da pantomima, esasperata e tremendamente cinica.  Ecco, se si è pronti ad accettare tutto questo, ad accettare forzature ed elementi irrealistici, esagerazioni e caricature grottesche, allora il romanzo potrebbe risultare molto piacevole.
"Il profumo" racconta la storia di Grenouille, una creatura che di umano sembrerebbe avere solo l'aspetto fisico, un essere anaffettivo, incapace di creare qualsiasi tipo di rapporto umano, che sembra non aver mai provato un sentimento. L'unica cosa che per lui sembra avere importanza è il profumo: il naso di Grenouille è infatti estremamente sviluppato, sviluppato in maniera quasi sovraumana: riesce a fiutate una scia odorosa anche a forte distanza, conosce e ricorda ogni odore che abbia mai sentito, intuitivamente è capace di accostare le note olfattive per ricreare qualsiasi odore o per creare profumi totalmente nuovi, sublimi. E al tempo stesso, non possiede nessun odore. Non può essere riconosciuto, non ha nulla che lo caratterizzi, che gli dia un connotato: è neutrale, invisibile agli occhi del mondo, un essere trasparente, e forse proprio per questo incapace di inserirsi in un contesto di rapporti umani e di accettazione di principi come quello di bene e di male. Grenouille vive infatti per gli odori, tutto quello che fa è finalizzato a permettergli di conoscere quanti più odori possibili prima, e a permettergli di possedere questi odori poi (interessanti e anche molto accurate a questo proposito sono infatti le descrizioni delle tecniche profumiere come quelle della distillazione e dell'enflourage).
Questa sua brama di conoscere e possedere ogni profumo, ogni essenza, lo porterà a compiere le azioni più ignobili, ma per Grenouille non esistono concetti di bene e male, non esiste la giustizia, non esistono i rimorsi. Esistono solo gli odori.
Ed è interessante vedere come questa insensibilità del protagonista sembra quasi riflettersi nella scrittura: una scrittura che è piuttosto scarna, quasi cronachistica quando si tratta di descrivere le vicende più turpi e scellerate (le morti dei vari personaggi che hanno contribuito alla crescita di Grenouille prima, i suoi omicidi poi sono descritti in poche parole, senza pathos, semplicemente come una successione di fatti); una scrittura che invece si anima di descrizioni particolareggiate e ricercate quando si tratta di parlare degli aromi.
Se c'è una cosa che ho trovato fin troppo esagerata ed esasperata, anche rispetto al registro vagamente grottesco e surreale che comunque pervade tutto il romanzo, è proprio il finale. Questo l'ho trovato fin troppo sensazionale ed assurdo, anche se posso capire le motivazioni che hanno spinto Süskind. Ciò che accade è coerente con il resto del romanzo, ma sono forse le modalità ad essermi apparse un pochino esagerate.
Nonostante questo neo, devo dire  che ho trovato questo romanzo estremamente godibile ed originale, senza dubbio lo consiglierei a chi cercasse qualcosa di coinvolgente ed originale pur senza essere troppo impegnativo.

mercoledì 20 maggio 2015

La luna e i falò, di C. Pavese

Tanto per cambiare, questa è una recensione per me difficile da scrivere.
Lo so, lo dico praticamente all'inizio di ogni mia recensione, ma in questo caso è particolarmente vero. Basti pensare al fatto che solitamente preferisco scrivere le mie opinioni abbastanza "a caldo", entro pochi giorni dalla fine della lettura, mentre in questo caso sono passati più di dieci giorni senza che mi decidessi a scrivere nemmeno una riga. E tutt'ora non sono certa di quali siano le parole più adatte da utilizzare per descrivere le sensazioni che questa lettura mi ha dato.
È un romanzo verso il quale nutrivo grandissime aspettative, perché sembrava avere tutti gli elementi che di solito fanno entrare un libro nel mio cuore: una scrittura malinconica, una prosa evocativa e delicata, al confine della poesia, riflessioni e ricordi. È un romanzo che parla di ritorni, ritorni al proprio paese, alle proprie origini, al sostrato della propria natura; un ripiegarsi in sé stessi per sovrapporre la propria immagine attuale con quella da cui si era partiti. Ecco, è un romanzo che parla di ritorni, del fare i conti con quello che si è stati, che si è lasciato  o si è ritrovato, e io l'ho letto in un momento particolare della mia vita in cui mi sento totalmente "in partenza" (non sto parlando di partenze e ritorni fisici, sia chiaro, è un discorso che resta sul piano emotivo e psicologico). Non credo sia tanto - o per lo meno, non solo -una questione anagrafica, ma più che altro di esperienze e di situazioni: in questo particolae momento della mia vita io mi sento estremamente proiettata verso l'esterno, lontanissima da questo moto di ritorno, di ripiegamento su sé stessi, dunque immagino che non fosse questo il momento adatto per leggere un romanzo del genere. Sicuramente lo prenderò di nuovo in mano più avanti, quando mi sentirò pronta a "tornare".
Devo dire che per più di tre quarti del romanzo (o meglio, forse dovrei chiamarlo "raccolta di memorie") mi sono annoiata parecchio. Certo, la scrittura di Pavese è veramente qualcosa di bello, ci sono passaggi che sono vera poesia in prosa, ma fra uno di questi momenti e l'altro ho fatto davvero fatica ad appassionarmi alle vicende. Forse perché non si può nemmeno parlare di vere e proprie vicende, perché in realtà si tratta solamente di riflessioni frammiste a ricordi buttati insieme un po' alla rinfusa. Non che in un romanzo io cerchi a tutti i costi una trama ricca e densa, tutt'altro, ma devo dire che in questo caso mi sono annoiata molto. In generale, fatico ad appassionarmi alla vita contadina descritta nei minimi dettagli, e non appena qualche capitolo prendeva una strada interessante, un percorso riflessivo ricco, un ricordo di cui sarei stata curiosa di leggere, ecco che Pavese mette un bel punto, volta pagina e inizia a parlare di tutt'altro.
Le ultime ottanta pagine circa invece mi hanno stupita in positivo: le ho lette tutte d'un fiato, anche se riflettendoci adesso mi rendo conto che il registro di quelle ultime pagine non era tanto diverso rispetto al resto del romanzo, per cui è altamente probabile che semplicemente io abbia letto questo romanzo in un momento particolarmente instabile per me, e che i miei sbalzi di umore abbiano condizionato fortemente la lettura.
Credo che comunque la scrittura di Pavese si meriti una seconda possibilità, magari quando sarò certa di essere più calma e di potermi approcciare a degli scritti così intimi e intimisti con un animo più sereno, più aperto ad accogliere emozioni diverse da quelle che mi pervadono in questo determinato momento.

lunedì 4 maggio 2015

Divorzio a Buda, di S. Márai

Ho conosciuto Màrai quattro anni fa, in maniera del tutto inaspettata e casuale: un regalo di circostanza, da parte di una persona che non mi conosceva quasi per nulla, la quale aveva saputo che mi piaceva leggere, e dunque per Natale mi ha regalato "Le braci", pur senza conoscere minimamente  i miei gusti. Ed io non conoscevo minimamente Màrai, dunque per diversi mesi ho ignorato completamente questo regalo, fino a quando non mi sono decisa a dargli una possibilità, piena di scetticismo, senza aspettarmi nulla.
Ebbene, sono rimasta folgorata. Folgorata da una prosa lucidissima, capace di costruire personaggi complessi e di analizzare con una precisione fin troppo chiara l'immensa complessità dei rapporti  interpersonali.
Così, quando ho acquistato "Divorzio a Buda" e ho letto che questo breve romanzo potrebbe essere considerato come uno studio preparatorio al capolavoro "Le braci" ho avuto un po'di timore, timore che potesse sembrarmi incompiuto, o abbozzato, insomma, che non potesse reggere il confronto con un libro che invece mi era tanto piaciuto.
Ebbene, senza dubbio qualche punto in comune fra i due romanzi esiste: entrambi i romanzi possono essere nettamente divisi in due parti, una prima più pacata e descrittiva, dove prendono corpo le figure dei protagonisti, e una seconda di incontro-scontro, un lungo dialogo (quasi un monologo) dal ritmo serratissimo, dall'emozione crescente, dove la facciata di una realtà che era stata presentata come assolutamente lineare nella prima parte, progressivamente comincia a sbriciolarsi in un climax di tensione. E tutto questo, ne "Le braci" così come in "Divorzio a Buda",  a me piace terribilmente.
Quindi, sì, questo romanzo mi è piaciuto, e tanto anche. È uno di quei romanzi in cui è facilissimo immergersi per perdere il contatto con la realtà, uno di quei romanzi che ti chiede di essere bevuto in una sola sorsata, ripagando la tua febbricitante voglia di non staccare gli occhi dalle pagine con un'intensità di lettura che raramente ho ritrovato in altri autori. È un'intensità che sta tutta nelle riflessioni, nelle sfumature di tono, nei piccoli, complessissimi gesti che nel loro insieme vanno a creare i rapporti di due - o più - persone.
La trama stessa dell'intero romanzo non è altro che un insieme di piccoli gesti: un giudice, felicemente sposato e padre di due figli, si appresta a presiedere al divorzio di un suo vecchio compagno di scuola, con cui non è più in contatto da diversi anni, da sua moglie, donna che il giudice ha incontrato in un paio di occasioni più di dieci anni prima. Dopo una lunga, pacata prima parte in cui Màrai dipinge magistralmente la figura di questo giudice, tutto si condensa nella notte precedente al processo, in una lunghissima conversazione che saprà scandagliare ongi anfratto che compone i rappprti umani e getterà una luce totalmente nuova sull'intera faccenda. È un dialogo dove l'ossessione e una inquietante vena quasi folle vengono rappresentate con scorcertante lucidità, quasi fossero sezionate, poste sotto vetro ed esaminate da un occhio clinico, ma proprio questa folle lucidità contribuisce a rendere più intensa la sensazione di perturbamento che pervade il lettore.
È interessante il contrasto che viene a crearsi con la prima parte, puramente descrittiva e molto pacata (nei toni, nello stile e negli argomenti) con lo straniante dialogo finale, ma è anche vero che la cesura fra le due parti sembra troppo netta, violenta, quasi la prima parte perdesse di importanza e di utilità di fronte alla seconda. Ecco, una cesura così netta ne "Le braci" non l'ho osservata, o quantomeno ora non ne conservo memoria, quindi solo questo mi spingerebbe a considerare "Divorzio a Buda" in qualche misura inferiore al capolavoro di Márai, che resta comunque un autore che mi dà sempre sicurezza, che non mi ha mai delusa.

sabato 18 aprile 2015

18 aprile 2015, o dell'inutilità

C'è stato un momento in cui scrivere sembrava possibile soltanto attraverso degli occhi occulti - sguardi fra le righe - , quando si trattava di aspettative e di delusioni e mi sostenevo aggrappandomi alle approvazioni tiepide.
Ora ho conosciuto gli angoli più bui della mia angoscia, e scrivere mi sembra una dichiarazione ancora più esplicita di un corpo nudo, e farlo, anche solo per me, sembra implicare una resa tanto incondizionata, una violazione di qualsiasi velo di intimitá tanto grande che nessuno dovrebbe permettersi di farlo, nemmeno a se stesso.
Eppure sono passati due anni dall'ultima volta in cui ho creduto all'inchiostro, due anni di silenzi e perdita di senso e realtà distanti, due anni di torpore e di giorni scivolati con tanta fretta da non lasciare tracce, se non quelle lacrime vacillanti agli angoli degli occhi che le ciglia hanno sempre saputo trattenere, due anni che non hanno conosciuto vita, due anni di dolore e di barriere e tutto quello che ancora non credo di saper dire.
Ho una corona d'alloro poggiata sulla scrivania, un traguardo che sento non appartenermi minimamente, qualcosa di cui dovrei andare fiera e invece me ne vergogno, mi vergogno di tutti quei giorni passati al tavolo più isolato della biblioteca, un computer davanti al volto e le dita inermi, a fingere di battere pochi tasti per poi tornare ad adagiarsi in pose sconce, tese, lo stomaco in subbuglio davanti al temibile biancore di quel foglio virtuale, minaccioso nella sua semplicità, così simile a quei tanti fogli che avevo smesso di saper riempire. Mi vergogno di tutti quei giorni invece - sedici, sono stati solo sedici - in cui ho dimenticato di mangiare, in cui ho ignorato le mie ciglia e il loro immane sforzo, quale ultime barriere prima del mio crollo liquido, e ho riempito di segni a cui non riesco a trovare un significato quelle cinquantasei pagine che ora se ne stanno colpevoli di mediocrità e mancanza di attenzione a riposare in mezzo a un abbraccio in velluto blu.
Forse l'imprudenza di riversarmi in mezzo a queste parole che una volta erano state la mia unica speranza, e ora sono il mio più profondo rimpianto e la mia paura più grande, posso riservarla solamente alle notti  tardive, quelle che giungono dopo una settimana di notti bianche, e silenzi protratti, occasioni mancate. Dopo quel sogno che non ho vissuto e le mie debolezze che sono corse veloci, dopo una cena in quel ristorante dalla vista tanto vertiginosa cui ho voltato le spalle, dopo una mano sul mio fianco e uno sguardo deciso e il mio ginocchio così vicino ad un ginocchio caldo, quando avevo abbassato la guardia e osato per un attimo sperare, quando il pendolo aveva ripreso il suo moto e raggiunto il picco, per rigettarmi in una discesa che ogni volta si fa più devastante, perché la consapevolezza di ciò che resta sospeso in aria e della mia distanza logora le briciole di certezze che ancora si nascondo agli angoli della mia anima.
Ed è la consapevolezza del nullo valore di questi miei scritti a farmi sentire ogni giorno più distante da quella che ero due anni fa, e forse dovrei semplicemente fermarmi e respirare, abbraciare il cuscino e sperare che questa notte il sonno venga, e invece continuo a muovere insensatamente le dita su questa tastiera. È una danza che è solo un pallido riflesso di quel che avrei voluto essere, ma è pur sempre quanto di più vicino a quella vita io abbia sperimentato negli ultimi ventiquattro mesi, e dunque smettere mi sembrerebbe terribilmente simile a ricominciare a morire.
Non m'importa più nemmeno di quella bimba bionda che mi ha abbracciata dicendomi che le ero simpatica, non mi importa di quella mano grande che ha stretto la mia mentre cercavo di aprire la portiera dell'automobile, e di quel bacio a cui mi sono sottratta nonostante avrebbe potuto essere un'ancora di salvezza in questa notte di temporali, di tuoni privi di luce e di tremori viscerali.
Riesco a pensare solo a tutti i personaggi cui non mi sono mai applicata, tutte le vite che ho lasciato si spegnessero in punta di penna, Rossana e Clara e il profilo di un collo cinto da un filo di perle, e tutto quello che ho sempre rinviato ad un futuro che mai avrei dovuto considerare prossimo, perché non fa per me.
Sono fatta d'esistenze trasparenti, prive della nobiltà dei cristalli, sono fatta per i silenzi trattenuti in fondo alla gola, ché nessuno si accorga delle ciglia arrese.

venerdì 17 aprile 2015

Le correzioni, di J. Franzen

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA
Stavo per iniziare anche questa recensione dicendo che per me è difficile parlare di questo libro, raccogliere le idee e trovare una visione univoca, ma mi rendo conto che questo è quello che dico più o meno ad ogni recensione, e dunque che valore potrebbe avere? È anche vero che, in questo caso più che in altri, sento di non sapere quanto ho apprezzato e quanto invece non mi è piaciuto di questo romanzo.
Sento parlare di "Le correzioni" da tanti anni, ho letto commenti entusiasti che inneggiavano ad un capolavoro contemporaneo destinato ad entrare a far parte del novero dei classici, di un moderno Tolstoj, di Letteratura con la maiuscola, e al tempo stesso ho letto critiche ferocissime che stroncavano in pieno il romanzo definendolo un mucchietto di nulla. Be', solitamente davanti a situazioni del genere io mi getto a capofitto nella lettura, curiosa di scoprire da che parte mi schiererò, e così ho fatto anche questa volta. Ebbene, ripensando ai commenti così disparati, mi rendo conto di trovarmi esattamente nel mezzo, o per lo meno mi sembra che entrambi i fronti abbiano le loro ottime ragioni.
"Le correzioni" è un grande romanzo che narra la vita dei Lambert, "tipica" famiglia del midwest americano: troviamo Alfred, uomo dispotico, rigidissimo nelle sue regole di disciplina che non concedono mai un gesto d'affetto evidente per le persone che ama, e troviamo il suo lento degradare a causa del Parkinson, della depressione e della demenza incombente. Incontriamo poi l'odiosissima Enid, moglie di Alfred, una donnetta insignificante, morbosamente attaccata all'apparenza e piena di vergogna per tutto quello che non rientra nei suoi canoni di normalità, tutto ciò che non riesce a correggere, mi verrebbe da dire. A contendersi il premio di personaggio più odioso incontriamo poi il primogenito Gary e tutta la sua famigliola: un uomo visceralmente attaccato ai soldi, che monitora la sua depressione senza voler ammettere di avere un problema (o meglio, crogiolandosi al pensiero di avere una malattia mentale per la quale potersi autocommiserare), soggiogato all'arrogantissima moglie Caroline, manipolatrice, e circondato da figli adolescenti vogliono, comandano e possono tutto. C'è poi Chip, il figlio di mezzo, il figlio pseudotrasgressivo che scrive e riscrive una sceneggiatura squallida, pontifica contro il sistema capitalistico senza fare mezzo passo per uscirne, non si occupa della famiglia, scappa di fronte ad ogni minima responsabilità e si imbarca in un tragicomico e improbabile viaggio di (truffaldino) lavoro in Lituania per poi subire una sorta di redenzione ancora più imbrobabile nelle ultime pagine del romanzo. Sì, insomma, lo stereotipo fatto a personaggio. Infine c'è Denise, la figlia minore, l'unico personaggio per cui abbia provato un minimo di simpatia: donna glaciale ed ambiziosa, che si difende dalle aspettative altrui rifugiandosi in un mondo fatto di lavoro, lavoro e ancora lavoro fino al momento in cui le sue barriere inevitabilmente cedono sotto la pressione della vita, e tutta la sua umanità, le sue contraddizioni, i suoi difetti e il suo dolore fanno irruzione.
È molto interessante come Franzen approfondisca ogni figura in un capitolo, e come ogni parte del romanzo getti una luce diversa sia sul protagonista che, soprattutto, sugli altri membri della famiglia, che inevitabilmente si ritagliano la propria identità partendo dal modo in cui gli altri li riconoscono. Proprio come in un gioco di specchi, non esiste identità, esistono prospettive, che possono distorcere un fatto, piegarlo e snaturarlo, ma anche aprire nuove possibilità di interpretazione, illuminare angoli bui, mostrare lati nascosti. E il lettore stesso si trova a far parte di questo gioco di specchi, a muoversi in questo gioco di specchi, cosicché, arrivato in fondo alle seicento pagine del romanzo, non esistono visioni unilarerali, non esiste nessuna epifania di realtà nascoste, ma solo un fascio di diversi punti di vista con cui cercare di fare i conti. Perché, sì, i personaggi sono veramente insopportabili, ma al tempo stesso sono tremendamente piccoli nelle loro infelicità, e i loro difetti, nel momento in cui non vengono più considerati come singoli personaggi ma in quanto inseriti in una rete di relazioni, diventano quasi parte di un sistema, hanno delle cause e delle conseguenze che creeranno nuove ondate di rezione negli altri elementi che costituiscono il sistema.
Vero è che forse questo voler mostrare tutti i dubbi, il dolore, la solitudine, gli errori e le correzioni (ma davvero si può parlare di errori e correzioni) di quella che in apparenza dovrebbe essere una tipica famiglia, andando a scavare sotto le apparenze per portare alla luce tutto il marcio non è esattamente quanto di più originale si possa fare in un romanzo. Per tutta la durata della lettura ho avuto l'impressione di leggere qualcosa di già sentito, una bella variazione su un tema ormai un po' troppo sfruttato. Davvero è necessario ribadire che anche dietro la facciata più canonica si possono nascondere anfratti oscuri e dolore? Forse sì, ma questa sensazione di ripetere qualcosa già detto mi ha accompagnata per tutto il romanzo.
Romanzo che si lascia leggere con estrema semplicità, molto scorrevole, accattivante, ma a tratti ho avuto la sensazione che di alcune pagine si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno. Quasi che Franzen fosse stato consapevole di voler scrivere un "librone" importante, e abbia a tutti i costi voluto allungare il brodo con elementi che sul momento non infastidiscono, perché a pensarci bene durante la lettura non ho mai trovato noioso qualche passaggio, ma che a conti fatti non aggiungono proprio niente alla struttura generale, se non un buon numero di pagine.
In fine dei conti, mi ritrovo ad aver speso un gran numero di parole per trovarmi alla fine di questa recensione più confusa di prima: ho apprezzato questo romanzo? Se devo essere sincera, non lo so. Mi è passato addosso molto velocemente, come velocemente l'ho letto, e mi rendo conto che alcuni passaggi che normalmente mi avrebbero scossa profondamente (come quelli sul degrado della malattia di Alfred, e soprattutto il suo ultimo dialogo con Chip) mi hanno lasciata quasi (badate bene, quasi) indifferente. E mi sto ancora chiedendo se la colpa sia di Franzen oppure mia.

domenica 5 aprile 2015

Dell'amore e di altri demoni, di G. Garcìa Marquez

ATTENZIONE, QUESTA RECENSIONE POTREBBE CONTENERE ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA

Quando leggo Garcia Marquez - ma soprattutto quando leggo il Garcia Marquez più breve - ho sempre l'impressione di trovarmi davanti ad una fiaba, ad un sogno cristallizzato, a qualcosa di impalpabile ed estremamente lontano, e questa cosa non sempre mi soddisfa appieno.
Questo brevissimo romanzo, purtroppo, è uno di questi casi.
"Dell'amore e di altri demoni" narra le vicende di Sierva Marìa, una dodicenne che non ha mai ricevuto la minima attenzione da parte dei genitori e è stata cresciuta dagli schiavi della sua famiglia, apprendendo così lingue, religioni, riti e spiritualità yoruba; la ragazzina viene internata in un convento, perché ritenuta vittima di possessioni demoniache, dove incontrerà un giovane ecclesiastico erudito incaricato di occuparsi del suo esorcismo, e i due cadranno vittime di un demone molto più potente di quello che sembra possedere Sierva Marìa, l'amore: un amore improvviso, irrazionale e irresistibile, che Garcia Marquez cerca di dipingere come puro e quasi "angelicato", ma  che comunque mi ha lasciato una vaga sensazione di malessere pensando ai dodici anni di Sierva Marìa rapportati ai trentasei di Cayetano (soprattutto perché, dopo aver letto "Memorie delle mie puttane tristi" mi sembra che questa insistenza sugli amori di uomini fatti per ragazzine a malapena adolescenti sia leggermente disturbante). In mezzo a queste vicende incontriamo personaggi astrusi ma per nulla approfonditi, delle macchiette che mi sembrano essere capitate nel romanzo quasi per sbaglio, senza che abbiano un qualsiasi ruolo: medici scettici con cavalli di cent'anni, marchesi che per dodici anni non degnano la propria figlia di uno sguardo e che scoprono un immenso affetto solo dopo aver fatto rinchiudere la ragazzina in un convento, donne che pagano i propri schiavi per fare sesso con lei e si sfondano lo stomaco a forza di cacao e miele fermentato, e via discorrendo. Tutti personaggi che mi sono sembrati molto curiosi per intrattenere ad una prima lettura, ma dei quali, fra qualche settimana, probabilmente non ricorderò più nulla.
E in tutto questo l'unico personaggio a mio parere veramente interessante, Cayetano, quasi si perde: la sua è la figura dell'uomo di fede, legato da fortissimi vincoli di ubbidienza morali e spirituali ai suoi superiori, che da sempre ha riposto fortissime certezze nel suo destino spirituale, senza nemmeno rendersi conto di quanto tutto questo avrebbe potuto essere vincolante difficile da accettare, poiché non ha mai conosciuto alternative. L'incontro con un essere terrorizzato come Sierva Marìa lo getta in uno stato di confusione terribile, perché nonostante gli avvertimenti dei suoi superiori riesce a guardare oltre il pregiudizio che vorrebbe questa ragazzina sola e spaventata posseduta da un demonio, e questo sguardo privo di pregiudizio lo porterà a conoscere passioni che non avrebbe mai nemmeno immaginato, passioni che lo portano molto vicino a rinnegare quella che è stata tutta la sua vita, o per lo meno a metterne in dubbio i valori. Eppure tutto questo viene condensato in poche pagine, passando quasi in secondo piano, e secondo me, in questo modo, il romanzo perde tanta della forza che avrebbe potuto avere.
Insomma, questo romanzo mi è scivolato addosso proprio come un sogno, confuso, pieno di incertezze, con qualche visione folgorante che mi re do conto avrebbe potuto avere una forza molto incisiva, se solo fosse stata approfondita maggiormente. E, proprio come un sogno, pochi giorni dopo averlo terminato comincio già a vederlo sbiadire nella mia mente, e temo che fra poco mi rimarrà ben poco di questo romanzo, se non una sensazione di abbozzo ed incompletezza.

giovedì 2 aprile 2015

Memorie di una ragazza perbene, di S. De Beauvori

Avrei voluto leggere questo libro già diversi anni fa, quando mi fu consigliato da un'amica che in quel periodo aveva gusti letterari particolarmente affini ai miei, eppure, per un motivo o per un altro, ho sempre rimandato. Guardandomi alle spalle ora, sono contenta di aver aspetato tanto, perché difficilmente avrei potuto leggerlo in in momento più adatto per apprezzarlo al meglio.
In questo intensissimo libro è racchiusa la prima parte dell'autobiografia di Simone De Beauvoir, scrittrice e filosofa, compagna di Jean-Paul Sartre, promotrice di un femminismo che mi verrebbe da definire "sano", donna tormentata, forte, terribilmente innamorata della libertà. In queste pagine  Simone ci accompagna attraverso la sua infanzia, mostrandoci la rigidità dell'educazione cattolica ricevuta, e ci permette di camminare assieme a lei attraverso il formarsi del suo pensiero, l'affermazione della sua personalità, il lento ma inarrestabile affrancarsi dalle imposizioni familiari, camminando attraverso i corridoi della Sorbona fianco a fianco con quelli che sarebbero diventati grandi personaggi del panorama intellettuale francese ed europeo, uno su tutti: Jean-Paul Sartre.
In queste memorie si respira tutto il fervore intellettuale della Parigi sospesa fra le due guerre, di tutte quelle idee che covavano già sotto la cenere, si avverte il fremito di un'epoca che sta inesorabilmente cambiando, e accanto a tutte quelle persone che a testa bassa fingono di non vedere il cambiamento si stagliano le figure  nitide, come quella di Simone, che questo cambiamento nell'aria lo avvertono, e si preparano ad affrontarlo.
Dicevo, non avrei potuto leggere queste memorie in un  momento migliore, a poche settimane dalla mia laurea in Filosofia, al termine di un percorso che non avrebbe potuto essere più diverso da quello di Simone, e che mi ha portato quasi a detestare la mia facoltà. Non che ci sia stata nessuna folgorazione, sono tutt'ora convinta di aver fatto la scelta sbagliata, ma per lo meno, passeggiando nei ricordi di questa straordinaria donna, mi sono ricordata quali sono stati i motivi che quasi quattro anni fa mi hanno spinto a compiere questa scelta.
Ho trovato straordinario il percorso di crescita intellettuale di quesa ragazza, che da "ragazza perbene", prima della classe in un istituto cattolico, fervente credente, si ètrasformata in un una giovane donna libera, che  ha avuto la forza e l'onestà intellettuale di non fermarsi davanti alle convinzioni e alle convenzioni imposte dalla sua famiglia e dall'ambiente piccolo borghese che la circondavano. Sono pagine bellissime quelle in cui la sua fede comincia ad incrinarsi, il dubbio si fa strada dentro di lei, e nonostante la paura di ritrovarsi sola contro tutta la sua famiglia non può fare a meno di perseverare nelle sue concezioni intellettuali. Questa è solo una piccola crepa, perché da questo momento tutte le sue certezze, tutte le sicurezze sul suo mondo, sulla sua famiglia, sulla società in cui è cresciuta cominciano ad incrinarsi, tutto può essere messo in dubbio, e l'unica àncora di salvezza risulta la propria mente, il proprio riflettere, la propria filosofia.
È con una forza e una determinazione comune a pochi che la giovanissima Simone si ribella dal profondo del suo essere alle costrizioni che non le permettono di esprimersi liberamente: il suo non è, o non è solo, sprito di contraddizione adolescenziale. Simone vuole scrivere, non vuole alcun ostacolo fra lei e la ricerca della verità, vuole poter essere libera, giudicata per le sue azioni e il suo pensiero, e non per la classe sociale d'appartenenza o per il suo sesso, e lo vuole con una forza tenacissima.
C'è, a tratti, un pizzico di autocompiacimento che potrebbe far sembrare questa giovane donna vagamente piena di sé, ma accanto a tutto questo Simone ci svela tutte le sue fragilità, la sua solitudine, i suoi disperati rapporti interpersonali, tanto che è impossibile non provare ammirazione, compassione, ma soprattutto gratitudine nei confronti di una donna che al mondo ha dato veramente molto.

sabato 14 marzo 2015

Lolita, di V. Nabokov

Le mie opinioni riguardo a questo romanzo sono piuttosto contrastanti. Ho cambiato idea radicalmente più volte, leggendolo, e nonostanre ora lo abbia finito da diversi giorni, non riesco comunque a formulare un'opinione unitaria, mi sento molto combattuta.
La trama credo sia ormai nota a tutti: Humbert Humbert, tormentato da un'insano amore per le giovanissime (e per giovanissime, intende proprio giovanissime: le sue "ninfette",  a suo dire, perdono il potere di ammaliarlo già attorno ai quattordici anni), perde completamente la testa per Dolores Haze, Dolly, Lola, Lolita, e in seguito a svariate peripezie riesce a "conquistarla", trascinandola in un delirante viaggio attraverso gli Stati Uniti e la sua follia.
Insomma, un racconto di pedofilia che ci viene presentato dal "mostro" stesso, un mostro che scopriamo essere estremamente colto e raffinato, quasi lucido nella sua follia. Un mostro disperato, un malato consapevole della sua malattia, insomma, un mosto estremamente, terribilmente umano.
Nella prima parte del romanzo, devo dire di aver trovato lo stile di Nabokov meraviglioso: una prosa raffinatissima, colta, estremamente curata ma al tempo stesso molto scorrevole, mi ha ammaliata e completamente trascinata all'interno della narrazione. Ho divorato la prima metà del romanzo, completamente assorbita dall'ambigua figura di Humbert, catturata dalla sua malsana e sempre più crescente passione per Dolores. È straordinario il modo in cui Nabokov sia riuscito a suscitare disgusto e al tempo stesso simpatia (simpatia nel senso più etimologico, quello che apre la strada all'empatia, un essere disposti a comprendere - non accettare, non perdonare o sminuire, si badi bene - le situazioni e le ragioni che portano qualcuno a comportarsi in un determinato modo, fosse anche desiderare una bambina) nei confronti di un uomo che in fondo risulta quasi vittima di una passione più grande di lui, che non riesce a gestire, che riconosce come perversa e malata ma che al tempo stesso non può non provare. Condanniamo Humbert, lo condanniamo ad ogni pagina, ma non possiamo fare a meno di riconoscere il suo struggimento.
La seconda parte del romanzo, invece, quella dove la passione di Humbert trova finalmente sfogo, quella che dovrebbe essere più coinvolgente, più devastante e forte, l'ho trovata estremamente noiosa, quasi irritante. Ci sono ottimi spunti, il personaggio di Lolita sembra quasi restare sullo sfondo, eppure è credo uno dei ritratti più fedeli della prima adolescenza, di quel misto di ingenuità infantile, voglia di apparire "grandi", solitudine, paura e leggerezza, eppure lo possiamo cogliere solo attraverso gli occhi di Humbert, il quale sembra non accorgersi di nulla di tutto questo. Per lui Lolita è solo la forma della sua perversione, è la sua passione fattasi esperienza reale, è la sua estasi e il suo tormento, e nient'altro. Il tormento di Dolores, una ragazzina spaventata, rimasta sola, che non ha mai ricevuto molto affetto in vita sua e ora sembra pronta ad attaccarsi a qualsiasi cosa possa sembrarle un punto fermo, rimane solo sullo sfondo, e questo mi ha un po' infastidita, perché a volte, presi dai ghirigori letterari e le belle merafore che Nabokov mette sulle labbra ad Humbert si rischia quasi di dimenticare tutto questo aspetto. Inoltre, a mio parere in questa parte lo stile di Nabokov raggiunge vette di abilità fin troppo elevate, risulta quasi autocelebrativo, una dimostrazione di talento che distoglie troppo l'attenzione dalle vicende, rendendo noiosa la lettura proprio nel  momento in cui dovrebbe stimolare di più il lettore. Io ho poi trovato estremamente fastidiosa la leziosità di alcuni passaggi, lo stile quasi bucolico con cui ci si rifersice ai rapporti sessuali fra Humbert e Dolores: l'ho trovato molto di cattivo gusto, nauseante.
Sul finale il romanzo riprende la sua forza iniziale, la passione di Humbert lo ha trascinato negli anfratti più bui della psiche, è tormentato e confuso, ma abbandona l'eccessiva ricercatezza dello stile, tornando ad essere estremamente ben scritto ma godibile, non più stucchevole.
Nel complesso, penso di poter dire di aver apprezzato questo romanzo, pur con qualche riserva sia sulla forma, che su alcuni contenuti. Perché, se é vero che un romanzo è finzione, e non deve avere a tutti i costi un intento moraleggiante, credo che scrivere un romanzo significhi dire qualcosa. E, arrivata in fondo, mi chiedo perché Nabokov abbia scelto proprio questo tema per il suo romanzo: non riesco proprio ad impedirmi di pensare che, forse, un pizzico di furbizia di fondo ci sia, perché si sa, certi temi scottano, fanno discutere, fanno scalpore, suscitano curiosità, indignazione, morbose voglie voyeuristiche, e anche la critica è pur sembre visibilità. Spero tanto di sbagliarmi, e non voglio con questo togliere nulla al grande valore letterario che il romanzo conserva, ma un po' di scetticismo, non posso negarlo, mi resta.

venerdì 27 febbraio 2015

Kafka sulla spiaggia, di H. Murakami

Non sono nuova alla lettura di Murakami  ho letto un discreto numero di sue opere, ma devo dire che ultimamente non sto più ricavando molte soddisfazioni da questo autore.
Certo, premetto che, a mio parere, Murakami con la penna ci sa fare, eccome. Sa scrivere molto bene, ha una prosa scorrevole ma mai scontata, e soprattutto è capace di conquistare il lettore, di incantarlo, ammaliarlo e trascinarlo con sé per tutta la durata della lettura. E questo, a mio parere, è un merito grandissimo. Tuttavia, se dal punto di vista stilistico non sono rimasta delusa dal buon giapponese nemmeno questa volta, i contenuti mi hanno convinta davvero poco. D'accordo, io non sono una grandissima amante di opere oniriche e surreali, quindi il problema forse sta un po' da entrambe le parti, però mi ritrovo di nuovo a fare la stessa riflessione che già avevo fatto al termine dell'ultimo suo libro che ho letto, "La ragazza dello Sputnik": per quanto si può andare avanti a scrivere libri dove le situazioni si inseguono, i personaggi si somigliano (mondi più o meno paralleli, distorsioni della realtà, confusione su cosa sia onirico e cosa no, ragazzini problematici, personaggi suggestivi, una fissazione per il sesso morbosa), risolvendo il tutto con elementi surreali che libro dopo libro diventano del tutto prevedibili? Non lo so.  Io francamente inizio a trovarlo vagamente noioso, e il fatto che questo romanzo presentasse elementi particolarmente assurdi (va bene parlare con i gatti, van bene pietre che aprono passaggi per strane dimensioni, va bene tutto, ma la pioggia di sardine proprio no) mi è sembrato accentuare ancora di più quest'aspetto, quasi Murakami fosse alla disperata ricerca del prossimo colpo di scena sorprendente. Ma non può essere tutto sempre sopra le righe, perché altrimenti si rischia di perdere la credibilità.
Questo romanzo racconta, con capitoli alternati, la storia di uno strano vecchino che, in seguito ad un curioso incidente avuto da bambino (incidente a cui inizialmente si dà molta importanza, al punto da portare testimonianze di medici e militari, ma di cui alla fine Murakami sembra dimenticarsi completamente) ha perso le capacità intellettive, guadagnandoci però la possibilità di parlare con i gatti, che un giorno si imbarca in uno strano viaggio in compagnia di un camionista appena conosciuto. In parallelo, abbiamo la fuga da casa del quindicenne Tamura Kafka, che fugge da una casa priva di affetti e da una profezia (o una maledizione?) edipica.
Ovviamente le strade dei due, seppur indirettamente, finiscono per incrociarsi, in mezzo ad un tripudio di citazioni cultuali, personaggi assurdi e al contempo terribilmente piatti, eventi straordinari che non hanno alcuna logica (nemmeno nell'economia del racconto, perché alla fine nulla si chiude, nulla si spiega, nulla sembra avere un senso almeno per la struttura del romanzo).
Certamente, un romanzo che  pur non convincendoti minimamente a livello di trama ti tiene incollato alle pagine qualcosa di buono (forse anche più di qualcosa) lo deve pur avere, ma temo che io e Murakami si stia iniziando a viaggiare su binari sempre più distanti. Lo trovo un bravissimo scrittore, senza dubbio, ma a livello contenutistico questa volta non mi ha lasciato proprio nulla.

mercoledì 18 febbraio 2015

Undici solitudini, di R. Yates

Ammetto che, fino a poche settimane prima di acquistare questo libro, non conoscevo nemmeno l'autore, se non giusto di nome. Poi però mi sono imbattuta, un po' per caso, in poche righe che commentavano questi racconti, e nonostante questo commento in particolare non dicesse nulla di particolare, questo libriccino mi è entrato in testa, e così, non appena mi si è presentata l'occasione, l'ho acquistato e subito letto.
Solitamente faccio fatica ad apprezzare i racconti brevi, è molto più facile che mi innamori di un romanzo in cui possa apprezzare la costruzione delle vicende, la complessità emotiva di un personaggio, la sua evoluzione. Insomma, sono proprio pochi i racconti che mi piacciono in sé e per sé, di solito è più facile che li apprezzi solo come spunto per conoscere un autore. Qualcuno una volta mi aveva detto che preferisco i romanzi perché mi tengono compagnia più a lungo, ed è straordinario notare come invece una delle poche raccolte di racconti che mi abbiano completamente rapita sia proprio una raccolta di solitudini.
Yates ha una prosa bellissima, me ne sono resa conto solo "a freddo", dopo aver terminato la lettura, perché questo libro credo d'averlo "letto" poco. Più che altro l'ho vissuto. E' uno di quei libri che sono riuscita a vivere solamente come esperienza del tutto personale, emotiva, che prescinde dall'ambito letterario. E mi è dunque difficile parlarne, perché alla carta stampata ho aggiunto così tanto di mio, durante la lettura, che probabilmente ho finito per leggere con un filtro davanti agli occhi, in maniera forse egoista nei confronti di quello che poteva essere il significato a cui l'autore avrebbe voluto fermarsi.
Questi undici racconti non sono null'altro che spaccati di vita quotidiana, personaggi comuni, esistenze normali. E forse tutta la loro forza sta prorpio qui.  Perché la solitudine, protagonista indiscussa di tutto il libro, emerge lentamente, prende forma piano, senza fare rumore, da momenti, situazioni e luoghi che ci sono perfettamente familiari. Se è difficile non immedesimarsi in almeno uno dei personaggi di Yates, è impossibile pensade di non aver almeno conosciuto (per strada, a scuola, sul lavoro) qualcuno che potrebbe benissimo ritagliarsi un posticino in uno di wuesti racconti. Yates infatti parla di un dolore strisciante, che prende spazio a poco a poco, silenziosamente. Non ci sono enormi tragedie in questi racconti, ai personaggi non accade nulla di tremendo, conducono vite magari non perfette, ma del tutto normali, eppure questa sofferenza sorda è tangibile e straziante. I personaggi di Yates, tutti, si trovano ad essere incapaci di condividede qualsiasi emozione. Sono circondati da mura immense, e, pur essendo le loro solitudini contigue, non riescono ad abbattere queste mura, a soffrire insieme, a consolarsi. Certo, c'è una nota di indolenza che percorre tutti questi undici racconti, perché i personaggi, inconsciamente o meno, sono porprio loro stessi la causa dei propri mali: sembrano non fare nulla per uscire dal limbo in cui si trovano, gettano al vento le occasioni che si presentano loro, sembrano non volersi aiutare. Ma, mi viene da chiedere, fino a che punto queste persone sono coscienti della propria sofferenza, della propria solitudine, e fino a che punto si rendono conto che basterebbero pochi gesti per provare almeno ad aiutarsi? Non lo so.
Non so nemmeno quanto ci sia di "giusto" nell'apprezzare racconti che sotto un certo punto di vista sembrano indulgere su atteggiamenti di compiaciuto vittimismo, mancanza di iniziativa, autodemolizione.
Ma so che questi racconti mi hanno fatto male, molto male, e so anche che, qualche volta, è necessario provare dolore per potersi liberare.

sabato 14 febbraio 2015

Notti di cristallo

Sono notti di cristallo, l'ambra ancora lontana, mentre prendo fiato a piccoli sorsi. Ho paura dei vetri infranti, della bellezza fragile e fittizia, pronta ad esplodere e lasciare che sia solo dolore, ma lentamente prendo fiato, stringo la penna tra le dita e cerco di ricordarmi come si fa a vivere.
È una veglia a singhiozzo, col torpore a gravare le palpebre e quel senso di irrealtà che rende quasi possibile sperare che tutto possa tornare a due anni fa, quando le lettere erano gioie e dolori, ma soprattutto erano, ed ero, io.
Ora vivo sottocoperta, rifugi che si trasformano in prigioni, la mia mediocrità che da ogni angolo mi sbeffeggia e mi fa sembrare così inutile anche solo provare a volermi bene. Non riconosco nemmeno più la differenza fra un silenzio e una voce che mi passa sopra, mi copre e mi scavalca senza nemmeno sfiorarmi. E di Rossana, di Chiara che è Clara in punta di piedi la notte di Natale, non rimane che qualche pallido segno tracciato con disprezzo su un foglio sgualcito. Sognavo, speravo, volevo.
Straordinaria evoluzione della lingua, tutti i miei errori in un tempo verbale.
Imperfetto.
Come le mie righe tracciate quasi a forza, 'ché la spontaneità non mi appartiene più. L'inchiostro era rifugio, era vita, era prendersi in considerazione e tentare di salvarsi. In queste notti di cristallo, dimentiche dell'ambra, l'inchiostro è costrizione, ricalcare antichi sentieri quando tutto attorno è mutato, consapevoli che non basta compiere un gesto abituale per ritrovare le emozioni che un tempo erano state àncore di salvezza. Mi costringo a scrivere, non rileggerò, non si tratta più nemmeno di flussi d'incoscenza.
Avevo ritmi spezzati, quando sapevo contemplare le notti d'ambra. Tremavo davanti alle vertigini verticali della poesia, e godevo dei miei brividi, mi cospargevo di sfrontatezza arrogandomi il diritto di lasciarmi cadere in mezzo a quei vuoti meravigliosi. Respiravo a pieni polmoni, respiravo l'imperfetto, e il vuoto ha smesso di circondarmi, penetrandomi.
Non avrei voluto scivolare nel patetico, che ha tanto poco a che fare col pathos in cui avrei amato crogiolarmi, ma le notti di cristallo sono fatte per muoversi piano, per respirare a salve, godere del chiarore rosato del cielo carico di neve di un inverno in ritardo.
È il rosa di Chagall, quello in cui per un attimo ho osato di nuovo sperare, e che ha saputo deludermi con affondi tanto precisi e delicati da anestetizzare il dolore. Vorrei sapere ancora muovermi in cerchio, pirouettes lente coi muscoli tesi, sorrisi a mascherare gli sforzi. Invece ho scritture che arrancano, la fatica in ogni riga, l'artificiosità che sembra far capolino ad ogni tasto premuto. Sì, il sipario è calato, non si tratta più di voltare il viso in favore del pubblico, il mio è solo il  vacillare stanco di chi cerca di ritrovare fiducia nei propri passi.
E il rosa delle notti di cristallo sembra aver soffocato l'ambra.

martedì 10 febbraio 2015

La donna in bianco, di W. Collins

Confesso che, se non mi fossi imbattuta in una recensione entusiasta ed entusiasmante, raramente avrei degnato di molta attenzione questo romanzo: principalmente perché l'unica cosa che sapevo sul conto di Collins era la sua amicizia con Dickens (e io con Dickens ho un rapporto a dir poco problematico dai tempi di una pessima professoressa del liceo) e il fatto che fosse considerato il padre del romanzo poliziesco, probabilmente l'unico genere, assieme al fantasy, che suscita pochissimo il mio interesse. Ecco, dunque, se avessi sentito parlare di questo romanzo senza prima essermi imbattuta in questa recensione, probabilmente sarei passata oltre senza pensarci due volte. Invece l'ho letta, e ho deciso di ingorare quei segnali che sembravano indicarlo come uno dei libri meno adatti a me.
Be', ho divorato in dieci giorni (dieci giorni intensi, pieni di impegni universitari, non dieci giorni di totale nullafacenza) un tomo di quasi settecento pagine. Forse perché ultimamente mi ero data a letture un po' più riflessive, forse perché in questo periodo ho bisogno di distrarmi senza affaticare troppo la mente, sicuramente perché Collins decisamente ha saputo scrivere un romanzo completo e terribilmente avvincente, in ogni caso fin dalle prime pagine mi sono trovata perfettamente a mio agio in questa squisita atmosfera vittoriana fatta di misteri, personaggi curiosi, sentimenti e intrighi. Mi sono completamente abbandonata e lasciata travolgere da questa storia particolarissima, complessa ma del tutto coerente, narrata con maestria dai diversi protagonisti (ma non solo, narrata da tutti i personaggi che hanno avuto a che fare in qualche modo con gli avvenimenti descritti). È difficile dire qualcosa sulla trama senza rischiare di anticipare nulla: "La donna in bianco" è infatti un romanzo che si basa sui colpi di scena, sulle rivelazioni che pongono in luce radicalmente diversa tutto quello che il lettore aveva pensato e saputo fino a poche pagine prima, e anche la più piccola anticipazione diminurrebbe, a mio parere, gran parte del piacere della lettura.  Mi limiterò quindi a dire che, sebbene sia innegabile la natura di fondo "poliziesca" di questo romanzo, non si deve nemmeno pensare che tutto si riduca a questo: è un romanzo complesso, che presenta sì un mistero e le indagini per venirne a capo, ma lo fa in maniera completa, lasciando spazio anche a elementi diversi.
I personaggi sono numerosi, e per alcuni versi potrebbero anche apparire leggermente stereotipati (Walter, integro e fedele al suo sentimento, Marian forte, indipendente e acuta, Sir Percival odioso fin dalla sua prima apparizione, Mr Fairlie una macchietta ipocondriaca, il Conte Fosco una viscida figura sorpa le righe, Laura bella e buona, sensibile e impressionabile...) e in effetti lo sono, ma al tempo stesso ci si rende conto che funzionano bene così. Hanno peculiarità specifiche, sono coerenti, nei loro "tratti tipici" conservano pur sempre autonomia e un certo spessore psicologico. Insomma, "La donna in bianco" è un romanzo che non si prefigge di portare il lettore a riflettere su temi profondi, ma piuttosto vuole intrattenere costringendo il lettore ad avere bisogno di continuare la lettura, e ci riesce magnificamente, con uno stile pulito e accattivante, con una trama forte e ben costruita, con suspace e colpi di scena sorprendenti e inaspettati.
Insomma, una vera rivelazione, un bellissimo romanzo capace di conquistare da subito l'attenzione del lettore e di trascinarlo totalmente nel suo mondo, facendogli dimenticare ogni cosa attorno, compreso il fatto di star leggendo un romanzo.

mercoledì 4 febbraio 2015

Domani nella battaglia pensa a me, di J. Marìas

Trovo estremamente difficile provare a parlare di questo romanzo, che è romanzo, sì, ma anche tanto altro.
La trama, a pensarci bene, non è molto di più di quello che si può leggere sulla quarta di copertina: Vìctor è a cena a casa di Marta, un donna sposata che però conosce appena, la quale ha un malore e muore prima che i due possano concludere la serata a letto. Resta quindi un bimbo di due anni, che vedrà il suo mondo terminae con la scomparsa di sua madre; resta un marito in viaggio di lavoro a Londra; resta una sorella minore, che un giorno sarà però maggiore di Marta; resta un padre che si aggrappa all'etichetta e alla dignità per sopravvivere al dolore. Resta infine Vìctor, incantato - haunted - da avvenimenti e personaggi in cui si è imbattuto per caso, che si trova a dover condurre il lettore attraverso riflessioni importanti e avvenimenti stranianti.
Certo, se guardassimo alla trama solo come ad un susseguirsi di eventi, eliminando la voce di Vìctor, forse ci sembrerebbe di assistere a qualche cosa di assurdo, insensato, illogico e poco reale. Eppure la voce di Vìctor (o dello stesso Marìas? Del resto, quando il protagonista si trova ad inventarsi un nome davanti ad una prostituta - Victoria, femminile di Vìctor - sceglie di farsi chiamare Javier) c'è, e non si può fare a meno di ascoltarla. E, ascoltandola, ci si rende conto che l'insensato ha ragion d'essere, che ciò che sembra assurdo è invece giustificato.
È un romanzo che parla di quel che resta: quel che resta quando qualcuno muore, quello che resta quando finzione e realtà e illusione iniziano a vacillare, a sovrapporsi e allontanarsi, a sfumare i confini e l'uomo si trova a fare i conti con quello che era e a quello che ora è. Non ci sono certezze, in questo romanzo, c'è solo tanto vuoto e un senso quasi di capogiro, che accompagna il lettore dall'inizio alla fine. Un fatto può essere terribile e ridicolo, e mille volte diverso, perché dipende dal relatore che lo espone, e a volte lo stesso fatto è diverso anche quando il relatore rimane sempre lo stesso, perché sono diversi gli ascoltatori: è quasi un ritornello che accompagna buona parte del romanzo, e il punto dell'intera opera sta forse proprio qui. Una donna, una madre, una figlia, una sorella, una moglie, un'amante muore: cosa resta, cosa cambia? È un romanzo che parla di identità e di coscienza, e di conoscenza, e di quanto e come l'essere a conoscenza di qualcosa possa cambiare la coscienza che abbiamo del mondo e di come il mondo della nostra coscienza delimiti la nostra identità. A questo proposito è emblematico il discorso finale di Deàn, il marito di Marta, che si trova ad essere terribilmente sovrapponibile a Vìctor: la  conoscenza avrebbe potuto cambiare radicalmente il tono di determinati avvenimenti, la sua identità e quella delle persone che a lui si rapportano.
Un elemento fondamentale di questo romanzo, poi, è il ritmo: rythmos, un battito costante, il movimento di un'onda, gli stessi elementi che ciclicamente tornano, sempre gli stessi ma sempe diversi, perché le circostanze sono diverse, lo sguardo che li accoglie è cambiato, la luce non è più la stessa.  Leggendo, mi veniva da pensare che fosse un romanzo circolare, ma a lettura ultimata mi sembra che la figura che meglio lo rappresenti sia piuttosto quella di una spirale: gli stessi elementi tornano, si sovrappongono e si modificano, costruiscono l'uno sull'altro, sembrano tornare ognuno al loro posto, ma quel posto ormai non c'è più, tutto nel frattempo è  cambiato quel tanto che basta a renderlo riconoscibile ma essenzialmente diverso.
Mi è piaciuto veramente tanto, dopo un inizio faticoso (o meglio, denso, che non mi ha permesso di avanzare spedita nella lettura, ma non di non apprezzare la qualità della prosa e dei contenuti) l'ultima parte mi ha completamente rapita, ho letto le ultime ottanta sconvolgenti (e rivelatrici) pagine senza riuscire a staccarmene, saltando anche il pranzo (e vi assicuro che di solito il mio stomaco ha sempre l'ultima parola). L'amarezza, e al tempo stesso la consapevolezza che "è così che funziona davvero la vita" lasciate dalle pagine finali mi hanno completamente spiazzata e lasciata senza fiato, ma al contempo sono state la perfetta chiusura di un romanzo veramente straordinario.
Interessantissimo anche l'epilogo che ho trovato nella mia edizione, che riporta le parole dello stesso Marìas pronunciate in occasione della vittoria del premio Ròmulo Gallegos, veramente illuminanti e acute.

venerdì 30 gennaio 2015

Diario delle mie consonanze assenti, giorno 1

Ed è difficile riprendere per mano le tracce stanche che si avevano abbandonato in giorni che sembrano gemelli, giorni con poca neve fuori dalla finestra e tanta voglia di stendersi sotto un cielo arrogante e imparare a sciogliersi.
Sono pagine di diario strappate, curve morbide interrotte da angoli bruschi, e le mie dita che premono sui tasti con cautela, la stessa cautela di un uomo convalescente che dopo anni torna a poggiare i piedi a terra. Barcollo un po’ fra queste righe, trattengo gli slanci azzardati e mi curo poco della grazia nel movimento. Scrivo senza pretendermi, è solo un modo come un altro per tornare a guardarmi e cercare i miei limiti e capire quanto l’animo si sia atrofizzato.
Ho dimezzato i chilometri, accresciuto l’angoscia e pareggiato i conti tra speranze e disillusioni, ma ancora sento incastrata fra i capelli la neve tardiva di un giovedì sera in provincia, e quelle parole deboli che ho fatto correre sotto le unghie. Eterno ritorno, di nuovo mi trovo a riflettere sulle persone, prima seconda o terza. Ed è un po’ come chiudere gli occhi e lasciare che le onde mi ricoprano il viso, un passo avanti e lo stesso moto che mi aveva spinta ad avanzare mi riporta indietro, risacca dei pensieri. Non parlo più di seconda persona fantasma o di pretesti sterili. Oggi voglio il mio egoismo, egoismo e null’altro, arrotolo una ciocca di capelli fra le dita e mi fermo a scavare in me.
A me, e agli articoli sottolineati di verde che fanno da tappeto ai miei gomiti, mentre sento le labbra spaccarsi e non so se è un sorriso o la colpa è delle lacrime, ma oggi ritorno a sognare. Ché se la mia vita deve essere sonno, se non posso più riprendere contatto concreto con tutto quello che scorre e ha tempi diversi dai miei, ci sia almeno il sogno.
Lo so, avevo promesso di smettere questa retorica pallida e piena di sé, ma ho i passi ancora intorpiditi da un silenzio durato così tanti giorni che ho smesso persino di contarli, e oggi i miei difetti sono quanto di più simile ad una casa o un abbraccio – e quanto sottile sia la loro differenza qualcuno me lo ha insegnato, con la sua assenza – io possa sperare di trovare.
Oggi mi  risveglio, muovo i miei passi deboli fra queste stanze note fatte di non detto e fiumi d’inchiostro che non fanno che celare tutto quanto avrebbe soltanto bisogno d’essere pronunciato a due voci. Voci sovrapposte, voci che si cedono il passo e si intrecciano a crearne una nuova, la consonanza che non ho mai conosciuto.

Ed è dalle mie consonanze assenti che ricomincerò a vivermi.

venerdì 23 gennaio 2015

Memorie dal sottosuolo, di F. Dostoevskij

Ho iniziato a leggere questo libriccino quasi per caso, perché partecipando ad un gioco letterario mi è capitato in sorte di dover "adottare" Dostoevskij, e di dover quindi leggere qualche cosa di suo. Di tempo per leggere qualche mattone (per mero numero di pagine) ne avevo ben poco, così ho letto rapidamente le trame delle sue opere più brevi, e mi sono decisa per questo.
Qualche volta mi  capita (be',  a dire il vero è piuttosto raro, ma qualche volta è successo) di imbattermi in libri che, oltre ad avere un indubbio valore a livello letterario di cui certamente milioni di altre persone più qualificate potrebbero e hanno parlato in maniera più significativa di quanto potrei fare io, sono anche in grado di andare a toccare corde puramente emotive, di andare a premere in quei punti della mia emotività in maniera tale da quasi raddoppiare ai miei occhi il loro valore. Mi è capitato raramente, solo con "La campana di vetro" della Plath, "Le onde" dell Woolf, e, anche se in maniera un po' diversa, anche con alcuni romanzi di Fitzgerald. Ecco, a questo mio personale e del tutto irrazionale "pantheon" credo proprio di dover aggiungere queste "Memorie dal sottosuolo".
Potrei quindi dire tante cose, parlare di come questo romanzo sia diviso in due parti: nella prima sono riportate le riflessioni apparentemente spontanee del protagonista, è una parte piuttosto lenta, che bisogna assaporare poco alla volta per comprendere a fondo, fermandosi spesso a riflettere. Il protagonista qui si presenta come un uomo cattivo, un uomo malato, malvagio, che è perfettamente cosciente della sua cattiveria e se compiace, quasi se ne vanta, senza nemmeno voler provare a cambiare. E nonostante questo all'inizio possa apparire surreale, quasi grottesco, proseguendo nella lettura ci si rende conto che forse questo personaggio altri non è che un essere umano, con le sue debolezze e i suoi difetti, senza filtri, senza la maschera che sempre, più o meno consapevolmente, tutti gli uomini si trovano ad indossare. La seconda parte è invece molto diversa, è molto più narrariva, e il protagonista si trova a raccontare alcuni episodi appartenenti al suo passato, episodi in cui vorrebbe dimostrare ciò che aveva affermato all'inizio, ossia la corruzione della sua condotta. E certo non si può dire che agisca "bene", in maniera retta e luminosa, ma al tempo stesso è impossibile non provare molta simpatia (etimologicamente parlando) nei confronti di questo ometto piccolo piccolo, delle sue nefandezze, dei suoi brutti pensieri e delle meschinità dietro a cui si nasconde quasi fossero una corazza. Ed è qualcosa di naturale, perché i suoi pensieri sono qualcosa di estremamente coerente con la natura umana più istintiva, quella dove la ragione viene per un attimo messa da parte. Ed è forse in questi momenti che ci sentiamo (o per lo meno, io mi sento) così pericolosamente vicina a questo essere vissuto per quarant'anni nel sottosuolo. Perché poi forse non sempre ci comportiamo in maniera simile, o cediamo ai richiami del sottosuolo, perché qualcosa interviene, perché siamo anche (e lo sottolineerei, anche) esseri razionali. E poi magari ci aggrappiamo a queste ultime risoluzioni razionali, e chiudiamo gli occhi, distogliamo lo sguardo, cerchiamo di concentrarci su altro per scacciare il pensiero di quel marcio che abbiamo respinto, ma che è stato comunque l'impulso primario, quello più, mi verrebbe da dire, naturale.
Dostoevskij non si vergogna di guardare l'essere umano per quello che davvero (e con questo non voglio dire che l'uomo sia solamente sottosuolo, perché altrimenti personaggi come Lisa non avrebbero ragione d'esistere, ma di nuovo vorrei sottolineare l'importanza di un "anche") e di guardare fino in fondo, senza disogliere mai lo sguardo. Il modo in cui questo guardare mi ha colpito, quello che mi ha portato a vedere anche dentro di me, be', lo terrò per me, ma devo dire che è forse proprio questo quello che mi ha lasciata più sconvolta e provata dopo la lettura di queste poche pagine.
È una lettura preziosissima, e forse non riuscirò mai (né, credo, vorrò) a spiegare in maniera lucida, ma insomma, è una lettura che consiglierei a chiunque avesse voglia di affrontare un po' della polvere che ha accumulato ai margini della propria coscienza.

Gelsomini di carta


Sento i capelli ancora umidi opporre un vago attrito al lento scivolare dell'elastico sottile, quello marrone, quello che ormai ha perso la sua forma e non riesce più a restare al suo posto, a trattenere e trattenersi, aggrapparsi, salvarsi. Perché le assonanze a volte giocano con i sinonimi nascosti, e forse trattenere qualcuno stretto a sé equivale a raccogliersi, a stringere forte le dita una sull'altra e a salvare i cocci prima che tocchino terra e si scompongano ancora.
Avvolgo l'elastico attorno al polso, non m'importa sapere che tra qualche minuto avvertirò la sua leggerezza così ingombrante da non poterlo sopportare, da non potermi sopportare così incatenata, e lo sfilerò con uno scrollone, lasciandolo scivolare ai piedi del letto. Domattina sarà tempo di raccogliere, gli elastici e i capelli, e i brandelli sparsi di questi respiri che mi permetto di non contare più.
Forse dovrei provare a raccogliere i miei versi. Quelli che ho scritto col palmo d'una mano che spostava il foglio tanta era la concitazione, e le dita sinistre tormentavano quella ciocca scura che ora cade proprio a coprire lo spigolo tagliente della clavicola.
Ci ho fatto un fiore, con quel foglio. Io che non ho la pazienza per far combaciare i lembi di carta, per trovare i giusti angoli, mi sono presa una manciata di respiri lenti, e del foglio con la mia poesia stanca ho fatto un fiore. Ho avuto cura di nascondere i miei segni insicuri all'interno, i petali di carta a trasformarsi in abbracci silenziosi, ventri materni.
Ed è curioso, mi si chiede di dare vita a tutto ciò che ho sempre abortito, Chiara che quando parlavo di versi s'è fatta Clara. In punta di piedi, Clara, col Natale a settembre. A seminare scie di pece sotto le sue sofferenze mascherate a sorrisi, Clara, Clarice. Ha smesso di indossare maglie bianche e di camminare a piedi nudi sul bagnasciuga quando io ho iniziato i miei silenzi, a dita distese, senza più cocci da raccogliere e amucchiare in un angolo disordinato per potervi indovinare figure fantastiche. C'è stato un momento in cui abbiamo saputo camminare assieme, io e la piccola Clara. I suoi occhi chiari puntati come un'accusa contro l'orizzonte, i miei a scusarsi sulla punta infangata delle scarpe.
 Io, con i miei palmi distesi, coi miei vuoti nel petto e le spalle contratte, a chiedermi dove potesse il suo profilo in controluce trovare la dignità dei gesti semplici, quelli di chi ha imparato a morire ad ogni schiudersi di ciglia.
E in mezzo ai suoi respiri fragili, Clara scivolava sull'ingenuità della rotella di liquirizia che svolgeva in un solo filo ondulato prima di spezzarla con piccoli morsi, gli occhi socchiusi contro il sole. Io sapevo solo sedere a terra e disegnare solchi con la punta delle dita nella sabbia asciutta.
Non ho saputo sostenere il suo fianco, mentre si lasciava lambire i piedi dalle onde.
Le leggo, ora, le mie onde istintive, le leggo in mezzo alle pagine che mi scavano baratri al centro dell'equilibrio. Vacillo, e anch'io sono onda.Sono rythmòs, accento e ritorno, sempre diversa, sempre uguale.
Non mi servono i versi. Non devono essere necessità, ma essenza.
Piango, e poi rido. E piango ancora, e ancora rido, e sono un innalzarmi soltanto per poi tornare ad infrangermi, sono il petto gonfio di respiri e l'ultimo anelito di espiazione.
Mi osservo le unghie dipinte di verde, mi accolgo anche con i miei colori fuori luogo, fra il grigio e la polvere, il rosso e il nero dei miei castelli di carte che costruisco soltanto per poterci soffiare in mezzo. Per ascoltare il suono della carta che cade, e immaginare costellazioni fra i semi sparsi.
Chiara, la piccola Clara, Clarice, me l'ha spiegato con la sua voce grave. Lei non ha mai avuto la pazienza di piegare la carta, non ha mai avuto versi per creare dei fiori. Aveva solo dita buone per svolgere rotelle di liquirizia morbida, e per appallottolare i suoi disegni a matita e lanciarli in mezzo alla stanza, per poi starsene ad inventare galassie e universi sospesi sulle fughe delle piastrelle.
Ora cammino cullandomi i gomiti, mordendo i silenzi e le rare risate, avvolgendo una ciocca scura di capelli attorno ad un dito, quasi cercassi le forme sinuose di rotelle di liquirizia. E non ho più versi, non ho fiori né galassie appallottolate sotto al letto, ho soltanto un elastico scuro e senza forza. Raccolgo i sospiri ed aspetto l'ondeggiare ritmico del mio annientarmi senza mai saper soccombere.
Mi trattengo.
M'aggrappo.
Mi salvo, forse.
E le onde si muovono in cerchio.