mercoledì 20 maggio 2015

La luna e i falò, di C. Pavese

Tanto per cambiare, questa è una recensione per me difficile da scrivere.
Lo so, lo dico praticamente all'inizio di ogni mia recensione, ma in questo caso è particolarmente vero. Basti pensare al fatto che solitamente preferisco scrivere le mie opinioni abbastanza "a caldo", entro pochi giorni dalla fine della lettura, mentre in questo caso sono passati più di dieci giorni senza che mi decidessi a scrivere nemmeno una riga. E tutt'ora non sono certa di quali siano le parole più adatte da utilizzare per descrivere le sensazioni che questa lettura mi ha dato.
È un romanzo verso il quale nutrivo grandissime aspettative, perché sembrava avere tutti gli elementi che di solito fanno entrare un libro nel mio cuore: una scrittura malinconica, una prosa evocativa e delicata, al confine della poesia, riflessioni e ricordi. È un romanzo che parla di ritorni, ritorni al proprio paese, alle proprie origini, al sostrato della propria natura; un ripiegarsi in sé stessi per sovrapporre la propria immagine attuale con quella da cui si era partiti. Ecco, è un romanzo che parla di ritorni, del fare i conti con quello che si è stati, che si è lasciato  o si è ritrovato, e io l'ho letto in un momento particolare della mia vita in cui mi sento totalmente "in partenza" (non sto parlando di partenze e ritorni fisici, sia chiaro, è un discorso che resta sul piano emotivo e psicologico). Non credo sia tanto - o per lo meno, non solo -una questione anagrafica, ma più che altro di esperienze e di situazioni: in questo particolae momento della mia vita io mi sento estremamente proiettata verso l'esterno, lontanissima da questo moto di ritorno, di ripiegamento su sé stessi, dunque immagino che non fosse questo il momento adatto per leggere un romanzo del genere. Sicuramente lo prenderò di nuovo in mano più avanti, quando mi sentirò pronta a "tornare".
Devo dire che per più di tre quarti del romanzo (o meglio, forse dovrei chiamarlo "raccolta di memorie") mi sono annoiata parecchio. Certo, la scrittura di Pavese è veramente qualcosa di bello, ci sono passaggi che sono vera poesia in prosa, ma fra uno di questi momenti e l'altro ho fatto davvero fatica ad appassionarmi alle vicende. Forse perché non si può nemmeno parlare di vere e proprie vicende, perché in realtà si tratta solamente di riflessioni frammiste a ricordi buttati insieme un po' alla rinfusa. Non che in un romanzo io cerchi a tutti i costi una trama ricca e densa, tutt'altro, ma devo dire che in questo caso mi sono annoiata molto. In generale, fatico ad appassionarmi alla vita contadina descritta nei minimi dettagli, e non appena qualche capitolo prendeva una strada interessante, un percorso riflessivo ricco, un ricordo di cui sarei stata curiosa di leggere, ecco che Pavese mette un bel punto, volta pagina e inizia a parlare di tutt'altro.
Le ultime ottanta pagine circa invece mi hanno stupita in positivo: le ho lette tutte d'un fiato, anche se riflettendoci adesso mi rendo conto che il registro di quelle ultime pagine non era tanto diverso rispetto al resto del romanzo, per cui è altamente probabile che semplicemente io abbia letto questo romanzo in un momento particolarmente instabile per me, e che i miei sbalzi di umore abbiano condizionato fortemente la lettura.
Credo che comunque la scrittura di Pavese si meriti una seconda possibilità, magari quando sarò certa di essere più calma e di potermi approcciare a degli scritti così intimi e intimisti con un animo più sereno, più aperto ad accogliere emozioni diverse da quelle che mi pervadono in questo determinato momento.

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