venerdì 27 febbraio 2015

Kafka sulla spiaggia, di H. Murakami

Non sono nuova alla lettura di Murakami  ho letto un discreto numero di sue opere, ma devo dire che ultimamente non sto più ricavando molte soddisfazioni da questo autore.
Certo, premetto che, a mio parere, Murakami con la penna ci sa fare, eccome. Sa scrivere molto bene, ha una prosa scorrevole ma mai scontata, e soprattutto è capace di conquistare il lettore, di incantarlo, ammaliarlo e trascinarlo con sé per tutta la durata della lettura. E questo, a mio parere, è un merito grandissimo. Tuttavia, se dal punto di vista stilistico non sono rimasta delusa dal buon giapponese nemmeno questa volta, i contenuti mi hanno convinta davvero poco. D'accordo, io non sono una grandissima amante di opere oniriche e surreali, quindi il problema forse sta un po' da entrambe le parti, però mi ritrovo di nuovo a fare la stessa riflessione che già avevo fatto al termine dell'ultimo suo libro che ho letto, "La ragazza dello Sputnik": per quanto si può andare avanti a scrivere libri dove le situazioni si inseguono, i personaggi si somigliano (mondi più o meno paralleli, distorsioni della realtà, confusione su cosa sia onirico e cosa no, ragazzini problematici, personaggi suggestivi, una fissazione per il sesso morbosa), risolvendo il tutto con elementi surreali che libro dopo libro diventano del tutto prevedibili? Non lo so.  Io francamente inizio a trovarlo vagamente noioso, e il fatto che questo romanzo presentasse elementi particolarmente assurdi (va bene parlare con i gatti, van bene pietre che aprono passaggi per strane dimensioni, va bene tutto, ma la pioggia di sardine proprio no) mi è sembrato accentuare ancora di più quest'aspetto, quasi Murakami fosse alla disperata ricerca del prossimo colpo di scena sorprendente. Ma non può essere tutto sempre sopra le righe, perché altrimenti si rischia di perdere la credibilità.
Questo romanzo racconta, con capitoli alternati, la storia di uno strano vecchino che, in seguito ad un curioso incidente avuto da bambino (incidente a cui inizialmente si dà molta importanza, al punto da portare testimonianze di medici e militari, ma di cui alla fine Murakami sembra dimenticarsi completamente) ha perso le capacità intellettive, guadagnandoci però la possibilità di parlare con i gatti, che un giorno si imbarca in uno strano viaggio in compagnia di un camionista appena conosciuto. In parallelo, abbiamo la fuga da casa del quindicenne Tamura Kafka, che fugge da una casa priva di affetti e da una profezia (o una maledizione?) edipica.
Ovviamente le strade dei due, seppur indirettamente, finiscono per incrociarsi, in mezzo ad un tripudio di citazioni cultuali, personaggi assurdi e al contempo terribilmente piatti, eventi straordinari che non hanno alcuna logica (nemmeno nell'economia del racconto, perché alla fine nulla si chiude, nulla si spiega, nulla sembra avere un senso almeno per la struttura del romanzo).
Certamente, un romanzo che  pur non convincendoti minimamente a livello di trama ti tiene incollato alle pagine qualcosa di buono (forse anche più di qualcosa) lo deve pur avere, ma temo che io e Murakami si stia iniziando a viaggiare su binari sempre più distanti. Lo trovo un bravissimo scrittore, senza dubbio, ma a livello contenutistico questa volta non mi ha lasciato proprio nulla.

mercoledì 18 febbraio 2015

Undici solitudini, di R. Yates

Ammetto che, fino a poche settimane prima di acquistare questo libro, non conoscevo nemmeno l'autore, se non giusto di nome. Poi però mi sono imbattuta, un po' per caso, in poche righe che commentavano questi racconti, e nonostante questo commento in particolare non dicesse nulla di particolare, questo libriccino mi è entrato in testa, e così, non appena mi si è presentata l'occasione, l'ho acquistato e subito letto.
Solitamente faccio fatica ad apprezzare i racconti brevi, è molto più facile che mi innamori di un romanzo in cui possa apprezzare la costruzione delle vicende, la complessità emotiva di un personaggio, la sua evoluzione. Insomma, sono proprio pochi i racconti che mi piacciono in sé e per sé, di solito è più facile che li apprezzi solo come spunto per conoscere un autore. Qualcuno una volta mi aveva detto che preferisco i romanzi perché mi tengono compagnia più a lungo, ed è straordinario notare come invece una delle poche raccolte di racconti che mi abbiano completamente rapita sia proprio una raccolta di solitudini.
Yates ha una prosa bellissima, me ne sono resa conto solo "a freddo", dopo aver terminato la lettura, perché questo libro credo d'averlo "letto" poco. Più che altro l'ho vissuto. E' uno di quei libri che sono riuscita a vivere solamente come esperienza del tutto personale, emotiva, che prescinde dall'ambito letterario. E mi è dunque difficile parlarne, perché alla carta stampata ho aggiunto così tanto di mio, durante la lettura, che probabilmente ho finito per leggere con un filtro davanti agli occhi, in maniera forse egoista nei confronti di quello che poteva essere il significato a cui l'autore avrebbe voluto fermarsi.
Questi undici racconti non sono null'altro che spaccati di vita quotidiana, personaggi comuni, esistenze normali. E forse tutta la loro forza sta prorpio qui.  Perché la solitudine, protagonista indiscussa di tutto il libro, emerge lentamente, prende forma piano, senza fare rumore, da momenti, situazioni e luoghi che ci sono perfettamente familiari. Se è difficile non immedesimarsi in almeno uno dei personaggi di Yates, è impossibile pensade di non aver almeno conosciuto (per strada, a scuola, sul lavoro) qualcuno che potrebbe benissimo ritagliarsi un posticino in uno di wuesti racconti. Yates infatti parla di un dolore strisciante, che prende spazio a poco a poco, silenziosamente. Non ci sono enormi tragedie in questi racconti, ai personaggi non accade nulla di tremendo, conducono vite magari non perfette, ma del tutto normali, eppure questa sofferenza sorda è tangibile e straziante. I personaggi di Yates, tutti, si trovano ad essere incapaci di condividede qualsiasi emozione. Sono circondati da mura immense, e, pur essendo le loro solitudini contigue, non riescono ad abbattere queste mura, a soffrire insieme, a consolarsi. Certo, c'è una nota di indolenza che percorre tutti questi undici racconti, perché i personaggi, inconsciamente o meno, sono porprio loro stessi la causa dei propri mali: sembrano non fare nulla per uscire dal limbo in cui si trovano, gettano al vento le occasioni che si presentano loro, sembrano non volersi aiutare. Ma, mi viene da chiedere, fino a che punto queste persone sono coscienti della propria sofferenza, della propria solitudine, e fino a che punto si rendono conto che basterebbero pochi gesti per provare almeno ad aiutarsi? Non lo so.
Non so nemmeno quanto ci sia di "giusto" nell'apprezzare racconti che sotto un certo punto di vista sembrano indulgere su atteggiamenti di compiaciuto vittimismo, mancanza di iniziativa, autodemolizione.
Ma so che questi racconti mi hanno fatto male, molto male, e so anche che, qualche volta, è necessario provare dolore per potersi liberare.

sabato 14 febbraio 2015

Notti di cristallo

Sono notti di cristallo, l'ambra ancora lontana, mentre prendo fiato a piccoli sorsi. Ho paura dei vetri infranti, della bellezza fragile e fittizia, pronta ad esplodere e lasciare che sia solo dolore, ma lentamente prendo fiato, stringo la penna tra le dita e cerco di ricordarmi come si fa a vivere.
È una veglia a singhiozzo, col torpore a gravare le palpebre e quel senso di irrealtà che rende quasi possibile sperare che tutto possa tornare a due anni fa, quando le lettere erano gioie e dolori, ma soprattutto erano, ed ero, io.
Ora vivo sottocoperta, rifugi che si trasformano in prigioni, la mia mediocrità che da ogni angolo mi sbeffeggia e mi fa sembrare così inutile anche solo provare a volermi bene. Non riconosco nemmeno più la differenza fra un silenzio e una voce che mi passa sopra, mi copre e mi scavalca senza nemmeno sfiorarmi. E di Rossana, di Chiara che è Clara in punta di piedi la notte di Natale, non rimane che qualche pallido segno tracciato con disprezzo su un foglio sgualcito. Sognavo, speravo, volevo.
Straordinaria evoluzione della lingua, tutti i miei errori in un tempo verbale.
Imperfetto.
Come le mie righe tracciate quasi a forza, 'ché la spontaneità non mi appartiene più. L'inchiostro era rifugio, era vita, era prendersi in considerazione e tentare di salvarsi. In queste notti di cristallo, dimentiche dell'ambra, l'inchiostro è costrizione, ricalcare antichi sentieri quando tutto attorno è mutato, consapevoli che non basta compiere un gesto abituale per ritrovare le emozioni che un tempo erano state àncore di salvezza. Mi costringo a scrivere, non rileggerò, non si tratta più nemmeno di flussi d'incoscenza.
Avevo ritmi spezzati, quando sapevo contemplare le notti d'ambra. Tremavo davanti alle vertigini verticali della poesia, e godevo dei miei brividi, mi cospargevo di sfrontatezza arrogandomi il diritto di lasciarmi cadere in mezzo a quei vuoti meravigliosi. Respiravo a pieni polmoni, respiravo l'imperfetto, e il vuoto ha smesso di circondarmi, penetrandomi.
Non avrei voluto scivolare nel patetico, che ha tanto poco a che fare col pathos in cui avrei amato crogiolarmi, ma le notti di cristallo sono fatte per muoversi piano, per respirare a salve, godere del chiarore rosato del cielo carico di neve di un inverno in ritardo.
È il rosa di Chagall, quello in cui per un attimo ho osato di nuovo sperare, e che ha saputo deludermi con affondi tanto precisi e delicati da anestetizzare il dolore. Vorrei sapere ancora muovermi in cerchio, pirouettes lente coi muscoli tesi, sorrisi a mascherare gli sforzi. Invece ho scritture che arrancano, la fatica in ogni riga, l'artificiosità che sembra far capolino ad ogni tasto premuto. Sì, il sipario è calato, non si tratta più di voltare il viso in favore del pubblico, il mio è solo il  vacillare stanco di chi cerca di ritrovare fiducia nei propri passi.
E il rosa delle notti di cristallo sembra aver soffocato l'ambra.

martedì 10 febbraio 2015

La donna in bianco, di W. Collins

Confesso che, se non mi fossi imbattuta in una recensione entusiasta ed entusiasmante, raramente avrei degnato di molta attenzione questo romanzo: principalmente perché l'unica cosa che sapevo sul conto di Collins era la sua amicizia con Dickens (e io con Dickens ho un rapporto a dir poco problematico dai tempi di una pessima professoressa del liceo) e il fatto che fosse considerato il padre del romanzo poliziesco, probabilmente l'unico genere, assieme al fantasy, che suscita pochissimo il mio interesse. Ecco, dunque, se avessi sentito parlare di questo romanzo senza prima essermi imbattuta in questa recensione, probabilmente sarei passata oltre senza pensarci due volte. Invece l'ho letta, e ho deciso di ingorare quei segnali che sembravano indicarlo come uno dei libri meno adatti a me.
Be', ho divorato in dieci giorni (dieci giorni intensi, pieni di impegni universitari, non dieci giorni di totale nullafacenza) un tomo di quasi settecento pagine. Forse perché ultimamente mi ero data a letture un po' più riflessive, forse perché in questo periodo ho bisogno di distrarmi senza affaticare troppo la mente, sicuramente perché Collins decisamente ha saputo scrivere un romanzo completo e terribilmente avvincente, in ogni caso fin dalle prime pagine mi sono trovata perfettamente a mio agio in questa squisita atmosfera vittoriana fatta di misteri, personaggi curiosi, sentimenti e intrighi. Mi sono completamente abbandonata e lasciata travolgere da questa storia particolarissima, complessa ma del tutto coerente, narrata con maestria dai diversi protagonisti (ma non solo, narrata da tutti i personaggi che hanno avuto a che fare in qualche modo con gli avvenimenti descritti). È difficile dire qualcosa sulla trama senza rischiare di anticipare nulla: "La donna in bianco" è infatti un romanzo che si basa sui colpi di scena, sulle rivelazioni che pongono in luce radicalmente diversa tutto quello che il lettore aveva pensato e saputo fino a poche pagine prima, e anche la più piccola anticipazione diminurrebbe, a mio parere, gran parte del piacere della lettura.  Mi limiterò quindi a dire che, sebbene sia innegabile la natura di fondo "poliziesca" di questo romanzo, non si deve nemmeno pensare che tutto si riduca a questo: è un romanzo complesso, che presenta sì un mistero e le indagini per venirne a capo, ma lo fa in maniera completa, lasciando spazio anche a elementi diversi.
I personaggi sono numerosi, e per alcuni versi potrebbero anche apparire leggermente stereotipati (Walter, integro e fedele al suo sentimento, Marian forte, indipendente e acuta, Sir Percival odioso fin dalla sua prima apparizione, Mr Fairlie una macchietta ipocondriaca, il Conte Fosco una viscida figura sorpa le righe, Laura bella e buona, sensibile e impressionabile...) e in effetti lo sono, ma al tempo stesso ci si rende conto che funzionano bene così. Hanno peculiarità specifiche, sono coerenti, nei loro "tratti tipici" conservano pur sempre autonomia e un certo spessore psicologico. Insomma, "La donna in bianco" è un romanzo che non si prefigge di portare il lettore a riflettere su temi profondi, ma piuttosto vuole intrattenere costringendo il lettore ad avere bisogno di continuare la lettura, e ci riesce magnificamente, con uno stile pulito e accattivante, con una trama forte e ben costruita, con suspace e colpi di scena sorprendenti e inaspettati.
Insomma, una vera rivelazione, un bellissimo romanzo capace di conquistare da subito l'attenzione del lettore e di trascinarlo totalmente nel suo mondo, facendogli dimenticare ogni cosa attorno, compreso il fatto di star leggendo un romanzo.

mercoledì 4 febbraio 2015

Domani nella battaglia pensa a me, di J. Marìas

Trovo estremamente difficile provare a parlare di questo romanzo, che è romanzo, sì, ma anche tanto altro.
La trama, a pensarci bene, non è molto di più di quello che si può leggere sulla quarta di copertina: Vìctor è a cena a casa di Marta, un donna sposata che però conosce appena, la quale ha un malore e muore prima che i due possano concludere la serata a letto. Resta quindi un bimbo di due anni, che vedrà il suo mondo terminae con la scomparsa di sua madre; resta un marito in viaggio di lavoro a Londra; resta una sorella minore, che un giorno sarà però maggiore di Marta; resta un padre che si aggrappa all'etichetta e alla dignità per sopravvivere al dolore. Resta infine Vìctor, incantato - haunted - da avvenimenti e personaggi in cui si è imbattuto per caso, che si trova a dover condurre il lettore attraverso riflessioni importanti e avvenimenti stranianti.
Certo, se guardassimo alla trama solo come ad un susseguirsi di eventi, eliminando la voce di Vìctor, forse ci sembrerebbe di assistere a qualche cosa di assurdo, insensato, illogico e poco reale. Eppure la voce di Vìctor (o dello stesso Marìas? Del resto, quando il protagonista si trova ad inventarsi un nome davanti ad una prostituta - Victoria, femminile di Vìctor - sceglie di farsi chiamare Javier) c'è, e non si può fare a meno di ascoltarla. E, ascoltandola, ci si rende conto che l'insensato ha ragion d'essere, che ciò che sembra assurdo è invece giustificato.
È un romanzo che parla di quel che resta: quel che resta quando qualcuno muore, quello che resta quando finzione e realtà e illusione iniziano a vacillare, a sovrapporsi e allontanarsi, a sfumare i confini e l'uomo si trova a fare i conti con quello che era e a quello che ora è. Non ci sono certezze, in questo romanzo, c'è solo tanto vuoto e un senso quasi di capogiro, che accompagna il lettore dall'inizio alla fine. Un fatto può essere terribile e ridicolo, e mille volte diverso, perché dipende dal relatore che lo espone, e a volte lo stesso fatto è diverso anche quando il relatore rimane sempre lo stesso, perché sono diversi gli ascoltatori: è quasi un ritornello che accompagna buona parte del romanzo, e il punto dell'intera opera sta forse proprio qui. Una donna, una madre, una figlia, una sorella, una moglie, un'amante muore: cosa resta, cosa cambia? È un romanzo che parla di identità e di coscienza, e di conoscenza, e di quanto e come l'essere a conoscenza di qualcosa possa cambiare la coscienza che abbiamo del mondo e di come il mondo della nostra coscienza delimiti la nostra identità. A questo proposito è emblematico il discorso finale di Deàn, il marito di Marta, che si trova ad essere terribilmente sovrapponibile a Vìctor: la  conoscenza avrebbe potuto cambiare radicalmente il tono di determinati avvenimenti, la sua identità e quella delle persone che a lui si rapportano.
Un elemento fondamentale di questo romanzo, poi, è il ritmo: rythmos, un battito costante, il movimento di un'onda, gli stessi elementi che ciclicamente tornano, sempre gli stessi ma sempe diversi, perché le circostanze sono diverse, lo sguardo che li accoglie è cambiato, la luce non è più la stessa.  Leggendo, mi veniva da pensare che fosse un romanzo circolare, ma a lettura ultimata mi sembra che la figura che meglio lo rappresenti sia piuttosto quella di una spirale: gli stessi elementi tornano, si sovrappongono e si modificano, costruiscono l'uno sull'altro, sembrano tornare ognuno al loro posto, ma quel posto ormai non c'è più, tutto nel frattempo è  cambiato quel tanto che basta a renderlo riconoscibile ma essenzialmente diverso.
Mi è piaciuto veramente tanto, dopo un inizio faticoso (o meglio, denso, che non mi ha permesso di avanzare spedita nella lettura, ma non di non apprezzare la qualità della prosa e dei contenuti) l'ultima parte mi ha completamente rapita, ho letto le ultime ottanta sconvolgenti (e rivelatrici) pagine senza riuscire a staccarmene, saltando anche il pranzo (e vi assicuro che di solito il mio stomaco ha sempre l'ultima parola). L'amarezza, e al tempo stesso la consapevolezza che "è così che funziona davvero la vita" lasciate dalle pagine finali mi hanno completamente spiazzata e lasciata senza fiato, ma al contempo sono state la perfetta chiusura di un romanzo veramente straordinario.
Interessantissimo anche l'epilogo che ho trovato nella mia edizione, che riporta le parole dello stesso Marìas pronunciate in occasione della vittoria del premio Ròmulo Gallegos, veramente illuminanti e acute.