lunedì 4 maggio 2015

Divorzio a Buda, di S. Márai

Ho conosciuto Màrai quattro anni fa, in maniera del tutto inaspettata e casuale: un regalo di circostanza, da parte di una persona che non mi conosceva quasi per nulla, la quale aveva saputo che mi piaceva leggere, e dunque per Natale mi ha regalato "Le braci", pur senza conoscere minimamente  i miei gusti. Ed io non conoscevo minimamente Màrai, dunque per diversi mesi ho ignorato completamente questo regalo, fino a quando non mi sono decisa a dargli una possibilità, piena di scetticismo, senza aspettarmi nulla.
Ebbene, sono rimasta folgorata. Folgorata da una prosa lucidissima, capace di costruire personaggi complessi e di analizzare con una precisione fin troppo chiara l'immensa complessità dei rapporti  interpersonali.
Così, quando ho acquistato "Divorzio a Buda" e ho letto che questo breve romanzo potrebbe essere considerato come uno studio preparatorio al capolavoro "Le braci" ho avuto un po'di timore, timore che potesse sembrarmi incompiuto, o abbozzato, insomma, che non potesse reggere il confronto con un libro che invece mi era tanto piaciuto.
Ebbene, senza dubbio qualche punto in comune fra i due romanzi esiste: entrambi i romanzi possono essere nettamente divisi in due parti, una prima più pacata e descrittiva, dove prendono corpo le figure dei protagonisti, e una seconda di incontro-scontro, un lungo dialogo (quasi un monologo) dal ritmo serratissimo, dall'emozione crescente, dove la facciata di una realtà che era stata presentata come assolutamente lineare nella prima parte, progressivamente comincia a sbriciolarsi in un climax di tensione. E tutto questo, ne "Le braci" così come in "Divorzio a Buda",  a me piace terribilmente.
Quindi, sì, questo romanzo mi è piaciuto, e tanto anche. È uno di quei romanzi in cui è facilissimo immergersi per perdere il contatto con la realtà, uno di quei romanzi che ti chiede di essere bevuto in una sola sorsata, ripagando la tua febbricitante voglia di non staccare gli occhi dalle pagine con un'intensità di lettura che raramente ho ritrovato in altri autori. È un'intensità che sta tutta nelle riflessioni, nelle sfumature di tono, nei piccoli, complessissimi gesti che nel loro insieme vanno a creare i rapporti di due - o più - persone.
La trama stessa dell'intero romanzo non è altro che un insieme di piccoli gesti: un giudice, felicemente sposato e padre di due figli, si appresta a presiedere al divorzio di un suo vecchio compagno di scuola, con cui non è più in contatto da diversi anni, da sua moglie, donna che il giudice ha incontrato in un paio di occasioni più di dieci anni prima. Dopo una lunga, pacata prima parte in cui Màrai dipinge magistralmente la figura di questo giudice, tutto si condensa nella notte precedente al processo, in una lunghissima conversazione che saprà scandagliare ongi anfratto che compone i rappprti umani e getterà una luce totalmente nuova sull'intera faccenda. È un dialogo dove l'ossessione e una inquietante vena quasi folle vengono rappresentate con scorcertante lucidità, quasi fossero sezionate, poste sotto vetro ed esaminate da un occhio clinico, ma proprio questa folle lucidità contribuisce a rendere più intensa la sensazione di perturbamento che pervade il lettore.
È interessante il contrasto che viene a crearsi con la prima parte, puramente descrittiva e molto pacata (nei toni, nello stile e negli argomenti) con lo straniante dialogo finale, ma è anche vero che la cesura fra le due parti sembra troppo netta, violenta, quasi la prima parte perdesse di importanza e di utilità di fronte alla seconda. Ecco, una cesura così netta ne "Le braci" non l'ho osservata, o quantomeno ora non ne conservo memoria, quindi solo questo mi spingerebbe a considerare "Divorzio a Buda" in qualche misura inferiore al capolavoro di Márai, che resta comunque un autore che mi dà sempre sicurezza, che non mi ha mai delusa.

Nessun commento:

Posta un commento