venerdì 23 gennaio 2015

Gelsomini di carta


Sento i capelli ancora umidi opporre un vago attrito al lento scivolare dell'elastico sottile, quello marrone, quello che ormai ha perso la sua forma e non riesce più a restare al suo posto, a trattenere e trattenersi, aggrapparsi, salvarsi. Perché le assonanze a volte giocano con i sinonimi nascosti, e forse trattenere qualcuno stretto a sé equivale a raccogliersi, a stringere forte le dita una sull'altra e a salvare i cocci prima che tocchino terra e si scompongano ancora.
Avvolgo l'elastico attorno al polso, non m'importa sapere che tra qualche minuto avvertirò la sua leggerezza così ingombrante da non poterlo sopportare, da non potermi sopportare così incatenata, e lo sfilerò con uno scrollone, lasciandolo scivolare ai piedi del letto. Domattina sarà tempo di raccogliere, gli elastici e i capelli, e i brandelli sparsi di questi respiri che mi permetto di non contare più.
Forse dovrei provare a raccogliere i miei versi. Quelli che ho scritto col palmo d'una mano che spostava il foglio tanta era la concitazione, e le dita sinistre tormentavano quella ciocca scura che ora cade proprio a coprire lo spigolo tagliente della clavicola.
Ci ho fatto un fiore, con quel foglio. Io che non ho la pazienza per far combaciare i lembi di carta, per trovare i giusti angoli, mi sono presa una manciata di respiri lenti, e del foglio con la mia poesia stanca ho fatto un fiore. Ho avuto cura di nascondere i miei segni insicuri all'interno, i petali di carta a trasformarsi in abbracci silenziosi, ventri materni.
Ed è curioso, mi si chiede di dare vita a tutto ciò che ho sempre abortito, Chiara che quando parlavo di versi s'è fatta Clara. In punta di piedi, Clara, col Natale a settembre. A seminare scie di pece sotto le sue sofferenze mascherate a sorrisi, Clara, Clarice. Ha smesso di indossare maglie bianche e di camminare a piedi nudi sul bagnasciuga quando io ho iniziato i miei silenzi, a dita distese, senza più cocci da raccogliere e amucchiare in un angolo disordinato per potervi indovinare figure fantastiche. C'è stato un momento in cui abbiamo saputo camminare assieme, io e la piccola Clara. I suoi occhi chiari puntati come un'accusa contro l'orizzonte, i miei a scusarsi sulla punta infangata delle scarpe.
 Io, con i miei palmi distesi, coi miei vuoti nel petto e le spalle contratte, a chiedermi dove potesse il suo profilo in controluce trovare la dignità dei gesti semplici, quelli di chi ha imparato a morire ad ogni schiudersi di ciglia.
E in mezzo ai suoi respiri fragili, Clara scivolava sull'ingenuità della rotella di liquirizia che svolgeva in un solo filo ondulato prima di spezzarla con piccoli morsi, gli occhi socchiusi contro il sole. Io sapevo solo sedere a terra e disegnare solchi con la punta delle dita nella sabbia asciutta.
Non ho saputo sostenere il suo fianco, mentre si lasciava lambire i piedi dalle onde.
Le leggo, ora, le mie onde istintive, le leggo in mezzo alle pagine che mi scavano baratri al centro dell'equilibrio. Vacillo, e anch'io sono onda.Sono rythmòs, accento e ritorno, sempre diversa, sempre uguale.
Non mi servono i versi. Non devono essere necessità, ma essenza.
Piango, e poi rido. E piango ancora, e ancora rido, e sono un innalzarmi soltanto per poi tornare ad infrangermi, sono il petto gonfio di respiri e l'ultimo anelito di espiazione.
Mi osservo le unghie dipinte di verde, mi accolgo anche con i miei colori fuori luogo, fra il grigio e la polvere, il rosso e il nero dei miei castelli di carte che costruisco soltanto per poterci soffiare in mezzo. Per ascoltare il suono della carta che cade, e immaginare costellazioni fra i semi sparsi.
Chiara, la piccola Clara, Clarice, me l'ha spiegato con la sua voce grave. Lei non ha mai avuto la pazienza di piegare la carta, non ha mai avuto versi per creare dei fiori. Aveva solo dita buone per svolgere rotelle di liquirizia morbida, e per appallottolare i suoi disegni a matita e lanciarli in mezzo alla stanza, per poi starsene ad inventare galassie e universi sospesi sulle fughe delle piastrelle.
Ora cammino cullandomi i gomiti, mordendo i silenzi e le rare risate, avvolgendo una ciocca scura di capelli attorno ad un dito, quasi cercassi le forme sinuose di rotelle di liquirizia. E non ho più versi, non ho fiori né galassie appallottolate sotto al letto, ho soltanto un elastico scuro e senza forza. Raccolgo i sospiri ed aspetto l'ondeggiare ritmico del mio annientarmi senza mai saper soccombere.
Mi trattengo.
M'aggrappo.
Mi salvo, forse.
E le onde si muovono in cerchio.

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